| (Testo CEI2008) 26 Discorso di Paolo durante il processo
Agrippa disse a Paolo: «Ti è concesso di parlare a tua difesa». Allora Paolo, fatto cenno con la mano, si difese così:
«Mi considero fortunato, o re Agrippa, di potermi difendere oggi da tutto ciò di cui vengo accusato dai Giudei, davanti a te,
che conosci a perfezione tutte le usanze e le questioni riguardanti i Giudei. Perciò ti prego di ascoltarmi con pazienza.
La mia vita, fin dalla giovinezza, vissuta sempre tra i miei connazionali e a Gerusalemme, la conoscono tutti i Giudei;
essi sanno pure da tempo, se vogliono darne testimonianza, che, come fariseo, sono vissuto secondo la setta più rigida della nostra religione.
E ora sto qui sotto processo a motivo della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri,
e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. A motivo di questa speranza, o re, sono ora accusato dai Giudei!
Perché fra voi è considerato incredibile che Dio risusciti i morti?
Eppure anche io ritenni mio dovere compiere molte cose ostili contro il nome di Gesù il Nazareno.
Così ho fatto a Gerusalemme: molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con il potere avuto dai capi dei sacerdoti e, quando venivano messi a morte, anche io ho dato il mio voto.
In tutte le sinagoghe cercavo spesso di costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la caccia perfino nelle città straniere.
In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con il potere e l'autorizzazione dei capi dei sacerdoti,
verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio.
Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: «Saulo, Saulo, perché mi perséguiti? È duro per te rivoltarti contro il pungolo».
E io dissi: «Chi sei, o Signore?». E il Signore rispose: «Io sono Gesù, che tu perséguiti.
Ma ora àlzati e sta' in piedi; io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò.
Ti libererò dal popolo e dalle nazioni, a cui ti mando
per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l'eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me».
Perciò, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste,
ma, prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e infine ai pagani, predicavo di pentirsi e di convertirsi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione.
Per queste cose i Giudei, mentre ero nel tempio, mi presero e tentavano di uccidermi.
Ma, con l'aiuto di Dio, fino a questo giorno, sto qui a testimoniare agli umili e ai grandi, null'altro affermando se non quello che i Profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere,
che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti».
Paolo invita il re Agrippa alla fede
Mentre egli parlava così in sua difesa, Festo a gran voce disse: «Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!».
E Paolo: «Non sono pazzo - disse - eccellentissimo Festo, ma sto dicendo parole vere e sagge.
Il re è al corrente di queste cose e davanti a lui parlo con franchezza. Penso infatti che niente di questo gli sia sconosciuto, perché non sono fatti accaduti in segreto.
Credi, o re Agrippa, ai profeti? Io so che tu credi».
E Agrippa rispose a Paolo: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!».
E Paolo replicò: «Per poco o per molto, io vorrei supplicare Dio che, non soltanto tu, ma tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino come sono anche io, eccetto queste catene!».
Allora il re si alzò e con lui il governatore, Berenice e quelli che avevano preso parte alla seduta.
Andandosene, conversavano tra loro e dicevano: «Quest'uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene».
E Agrippa disse a Festo: «Quest'uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare».
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